D: Quando è nato il tuo interesse per la musica leggera?

R: Come è avvenuto anche per te, l’interesse per le canzoni nasce in genere quando si è molto giovani. La mia gioventù, tra l’altro, si colloca in un periodo molto fecondo per musica leggera, italiana e non, a cavallo tra gli anni ’60 ed i ’70.

Da una parte l’esplosione della musica anglofona nelle sue varie declinazioni, con la proliferazione dei complessi pop, Beatles e Rolling Stones in primis. Dall’altra l’affermarsi in Italia dei cosiddetti cantautori che hanno indubbiamente contribuito a rinnovare il linguaggio utilizzato fino a quel momento per le canzoni. Ciò soprattutto in riferimento alla natura dei testi…

Fino ad arrivare al fenomeno costituito dal binomio Battisti-Mogol che si sono distinti per un’originalità del tutto sconosciuta, perlomeno in Italia. In quegli suonavo (male) la chitarra e mi esibivo con un complesso, come molti miei coetanei, ma non nutrivo aspirazioni da compositore.

D:  E allora come e perché hai scelto la canzone come veicolo espressivo?

R: Più tardi, intorno alla fine degli anni ’70. Le motivazioni principali credo consistano principalmente in due circostanze. L’una di carattere puramente tecnico, ovvero aver cominciato ad accompagnarmi al piano anziché con la chitarra. Questo mi ha consentito di sperimentare un maggior numero di “ricette” armoniche sulle quali appoggiare poi delle melodie; di aver potuto capire meglio, più approfonditamente, quali fossero le formule maggiormente collaudate attraverso le quali negli anni sono state costruite le canzoni.

L’altra per avere scoperto come le canzoni possano essere uno strumento relativamente semplice ed efficace per esprimere qualcosa di se stessi, della propria visione della vita e del mondo che ci circonda. In questo senso comporre canzoni ha rappresentato per me un fatto sostanzialmente privato,in gran parte lenitivo di un personale disagio. E’ per questo che mi sono poco interessato a renderle pubbliche, perché mi è sempre bastata la partecipazione e l’apprezzamento di una cerchia ristretta di persone a me vicine, a partire dalla mia compagna di vita Antonella, che è stata la fonte ispirativa di pressoché tutte le canzoni d’amore da me composte, e non solo di quelle.

D: John Lennon rimproverava a McCartney la tendenza di scrivere canzoni basate su storie inventate, in una maniera molto "narrativa". Lennon sosteneva di non poter essere lontano dall'autobiografia. Direi che è lo stesso anche per te. Giusto?

R: E’ vero. E non è un caso che mi senta molto più vicino ad autori (Tenco in particolare) nei quali si avverte una sorta di sovrapposizione tra la fonte ispirativa e la vita concretamente vissuta, soprattutto attorno al tema dell’amore che costituisce il fulcro tematico della maggior parte delle canzoni. Mi chiedo infatti come sia possibile parlare d’amore senza fare riferimento ad un proprio vissuto .

In quanto al fatto che le mie canzoni siano a volte eccessivamente “argomentate”, da alcuni è stato in effetti ritenuto una sorta di limite, perché ritengono che i testi delle canzoni dovrebbero offrire preferibilmente delle suggestioni da interpretare liberamente. Ma su questo ci sarebbe da discutere…

D: Facciamolo!

R: Nel senso che testi criptici o “rarefatti”, come se ne sentono spesso in giro, difficilmente riescono a provocare una partecipazione emotiva e una identificazione rispetto al tema di una canzone, che poi dovrebbe essere il compito principale della medesima. E in ogni caso, non dimentichiamo che una canzone è prima di tutto musica, e il testo diviene significativo solo per un effetto “di trascinamento”, per così dire…

D: Nella tradizione anglosassone la musica è solitamente più importante del testo in una canzone (lo stesso Dylan è ricordato per certe melodie e non per i pur brillantissimi testi che dubito in molti conoscano nei dettagli...), in Italia spesso ha prevalso l'atteggiamento da "Ora vi racconto una storia...". Tu come ti poni? E' più importante il testo o la musica in una canzone? 

R: La canzone va presa come un “unicum” ed il testo è un supporto indispensabile per dare corpo alla musica. Ma mentre può esistere una bella canzone con un brutto testo, non può mai verificarsi l’inverso… E’ solo dentro alla cornice musicale che lo contiene che va giudicata l’efficacia di un testo. Si possono fare centinaia di esempi, anche di canzoni molto famose, tipo Sapore di sale, a titolo esemplificativo. Dimmi te che efficacia avrebbe un testo simile fuori dal suo contesto musicale… Ma è altrettanto vero che non avrebbe senso musicare… meriggiare pallido e assorto… solo perché è scritta in endecasillabi rimati e dunque potrebbe essere potenzialmente adatta…

D: A questo proposito, come mai non esistono praticamente testi tuoi che non contengono rime?

R: Perché la rima ha già una propria musicalità interna e dunque si presta bene ad essere utilizzata in una canzone. Ciò non vuol dire che non esistano bellissime canzoni in rima sciolta, ma è meno frequente. Mi vengono in mente Tenco e di Endrigo: Lontano, lontano, ad esempio o Io che amo solo te, ma sono eccezioni che confermano la regola. E poi scrivere in rima è anche una scommessa (ed un grande divertimento).

D: Inutile girargli intorno... Tutti proveniamo da qualcosa. Dunque chi sono i tuoi ispiratori?

R: ...e qualcuno potrebbe pensare, che non c’è uno “stile” o che, in ogni caso, non mi piaccia averlo. La cifra stilistica però, intesa come “riconoscibilità”, non sempre può essere considerata un attributo positivo, soprattutto quando assume i contorni della “ripetitività”. Antonella mi diceva che alcuni autori ( il più bravo e famoso, in questo caso, ne è il classico esempio…) dopo una fase iniziale che li caratterizzavano anche molto positivamente, rischiavano di diventare “i manieristi di se stessi” e che io, bontà sua, potevo ritenermi indenne da tale pericolo. La bravura di autori come Battisti consiste proprio nel fatto di risultare perfettamente riconoscibili, pur avendo composto canzoni di ogni genere… E di aver saputo individuare, quando la vena ispirativa si stava allentando, il momento giusto per salutare tutti.

D: Ma esiste comunque una fonte ispirativa che può essere considerata prevalente? L’impressione è che ci sia , indipendentemente dalle suggestioni musicali che le ispirano, una aderenza ad una formula musicale a cui sei particolarmente affezionato e che rende queste canzoni un po’ “demodé”…

R: Proprio così! “A cosa serve una canzone?” Si intitola un mio brano nel quale ci si interroga sull’argomento. La premessa è importante: le canzoni (che io adoro, sia ben chiaro…) sono fondamentalmente delle “cureggine”, come disse Grillo quando faceva ancora il comico e non il capopopolo. Proporre De Andrè o Gaber per il Nobel, come qualcuno ha fatto, mi sembra francamente un po’ esagerato… Perché non Celentano, che ha interpretato e anche scritto canzoni che me sembrano complessivamente migliori?

Io credo che il fascino che può esercitare una canzone derivi in buona parte dalla natura specifica della formula attraverso la quale viene costruita; qual’è l’elemento che può renderci una canzone familiare, che consenta di “adottarla” come corrispondesse a qualcosa che più intimamente ci appartiene? Innanzitutto il fatto di poterla cantare, è ovvio! E una canzone che ha una struttura “canonica”, riesce a rendere tutto questo più facile… Per questo preferisco canzoni con strofe e ritornelli riconoscibili (il ché non vuol necessariamente dire banali, anzi può essere l’esatto contrario…) e testi altrettanto rammentabili, grazie magari ad una rima efficace…

D: Io però insisto a cercare di "farti vuotare il sacco" riguardo a quelli che sono i tuoi ispiratori...

R: Naturalmente esistono, ma nel mio caso non sono quelli verso i quali, per una sorta di automatismo, sembrerebbe più più logico essere indirizzati… Per esempio, per un attempato cantautore, il raffronto con Conte è per così dire “d’obbligo”, diviene ineludibile. Ora, aldilà che anch’io ritenga Conte il migliore di tutti e che abbia composto canzoni molto belle (“Azzurro” rappresenta a mio avviso il paradigma di una canzone “perfetta”…), non significa affatto che il suo modo di comporre e di scrivere divenga automaticamente un modello a cui ispirarsi… Io mi sono divertito a fare delle “citazioni” in proposito, quelle sì, ma musicalmente mi suggestionano assai di più autori come D’Anzi o Bindi, tanto per fare due nomi… Così come ritengo il mio universo culturale e “politico” molto più vicino ad altri cantautori, quelli genovesi “classici”, per intenderci.

D: Niente nel panorama italiano recente che ti stimoli? Come giudichi i recenti tentativi nel campo del formato canzone? 

R: Mi sentirei di dire che le canzoni, perlomeno per come le intendo io, non esistono più. Non hanno praticamente più senso, tranne forse per chi la fa a scopo terapeutico, come il sottoscritto; non certo per chi le ascolta…

D: Addirittura?

R: La mia risposta, in effetti, potrebbe essere prevalentemente motivata da un giudizio soggettivo, ma credo anche ci siano motivi oggettivi che la determinano. Vuoi che specifichi meglio?

D: Of course...

R: Come mai le canzoni più vecchie, che hanno avuto il tempo di sedimentarsi nella nostra memoria, sembrano in genere più belle? Questo avviene per l’appunto perché il “genere canzone” si presta ad essere legato ad un proprio vissuto individuale, molto personale. In sostanza, il fatto di ritrovarci così legati ad una specifica canzone non è determinato soltanto dalla intrinseca bellezza della medesima, ma dalla bellezza di un’epoca o di un momento particolare della nostra vita che una canzone riesce in qualche modo ad interpretare. Ma, mi chiedo, questo è ancora possibile, o le è ormai soltanto per chi non è più giovane come me? Questa è la parte “soggettiva” della risposta.
D: Ok. Però qui per ora di "oggettivo" c'è poco.  Proviamo ad addentrarci nella parte più "tecnica" del ragionamento?

R: Dalla metà degli anni 80 , che più o meno è l’epoca con la quale secondo me coincide l’ “appannamento” del genere (assieme alla passione politica…), si è verificato un fenomeno a mio avviso assai rilevante: il progressivo consolidarsi delle nuove tecnologie, che hanno permesso ad una platea di autori, cantanti, etc. sempre più estesa di affacciarsi sul mercato. Questo perchè chiunque lo desideri, può destinare un piccolo investimento personale a tale scopo… In sostanza, produrre un cd costa poco o niente.

Ma non è solo questo il problema. Se si ascoltano i prodotti che l’industria discografica italiana ci propone, ci si rende conto della sconfortante mediocrità dell’offerta. Melodie scontate mascherate (anche in virtù delle tecnologie testé citate), da arrangiamenti barocchi, cantanti che scambiano il bel canto con i decibel della loro voce, etc. Oppure canzoni più impegnate, che tuttavia hanno il difetto di essere o testualmente incomprensibili o prive di una struttura di riconoscimento che ci permetta di cantarle sotto la doccia. Ciò premesso, in una situazione “bulimica” di tale genere, è possibile selezionare una canzone che riesca a svolgere la funzione cui accennavo precedentemente? Chi ha adesso 20 anni, canterà con gli amici le canzoni del proprio passato, quando ne avrà 30 in più? A me riesce difficile pensarlo, ma può darsi mi sbagli… Vedo che tu stesso, però, ti ritrovi a cantare roba che appartiene praticamente alla tua infanzia…
D: Per la verità io di solito indietro, sino a quando non ero neanche nella mente di Dio… Ad ogni modo però qui e ora siamo e conviene scenderci a patti. Come ti inserisci in questo panorama?

R: Mi colloco molto bene perchè ho del tutto eliminato, ammesso che ci sia mai stato, qualunque proposito di ricerca di notorietà. Delle canzoni ne faccio un modico uso di tipo personale, per usare una similitudine da tossicodipendente. Ma mi piace anche pensare di poter dividere con qualcuno “lo spinello”; o, fuor di metafora, che ci sia qualcuno che possa riconoscersi in alcune di esse e le utilizzi come meglio crede: come uno spunto per una riflessione, per divertirsi o commuoversi un po’, per il riconoscimento di una situazione che appartiene anche alla propria vita. O solo per fischiettarle perché il motivo è gradevole e orecchiabile.

D: Un’ultima curiosità; una parte del tuo repertorio, nemmeno troppo marginale, è riservata a brani “scanzonati”, tra il goliardico-irriverente e il dileggiatorio. Mi vuoi dire due parole su questo?

R: E’ il repertorio che Antonella definiva “eruttivo”, a cui tengo molto e che ha anche una specifica funzione… Insieme alla trattazione di questioni di natura “escrementizia”, la dissacrazione di ciò che da molti è ritenuto alla base del nostro impianto etico (dio, patria e famiglia…), lo “sputtanamento” di ciò che intimamente viene da noi stessi ritenuto importante, serve a farci sorridere; ma nel mio caso ha anche uno scopo riequilibratorio, serve cioè a ridimensionare l’idea che ho di me stesso; nello specifico del “cantautore”, in particolare, è una maniera per temperarne il sempre latente narcisismo… Non è un caso che i più bravi cantautori siano generalmente piuttosto antipatici o comunque tendenzialmente presuntuosi. Questa tendenza ad abbandonarsi allo sberleffo proviene da molto lontano, da quando adolescenti, col mio caro compagno di pesca Alessandro, parafrasavamo per ore e ore celebri canzoni, poesie, etc. In questo esercizio è stato un maestro Gino Patroni. Lo conosci?

D: Non lo conosco. Chi è?

R:E’ stato un maestro inimitabile di calembours, giochi di parole e parafrasi. Anzi, visto ciò che ti ho preparato per cena, mi ha suggerito un testo sostitutivo di una celeberrima canzone che è perfettamente in tema e dopo ti posso cantare per intero... “Grazie dei cavolfior, sono indigesti eppur li ho digeriti, io li ho lessati e dopo insaporiti con l’aglio, il ramerino e il pomodor…”

Ho ascoltato più volte le canzoni di Marco Cresti, fino a riconoscere la musica leggendo i testi. Quando le strofe, anche se lette, finiscono per musicarsi, rimusicarsi nella memoria e cantare all’occhio che scorre il testo.

Alcune mi sono sembrate bellissime.

Il mare tra il lentisco forse la più bella. Gli uccelli che sanno volare, sanno emigrare, attraversare il mare, trovando il vento giusto…

Mentre noi, che non abbiamo ali, restiamo qua ; siamo della razza di coloro che restano a terra. E’ un motivo che Marco Cresti rimodula a suo modo da una suggestione poetica montaliana. Con Montale, altri scrittori del Novecento tornano alla mente, come Svevo.

L’anomalia di amare la nostra malattia. La maniacalità dei ricordi, le ferite della vita che non si chiudono mai. Il vecchio ragazzo che le racconta è sempre lo stesso e si meraviglia ogni volta di non essere stato inghiottito dagli squali che potrebbero nascere all’improvviso dalle onde di quell’orizzonte mobile che è il tempo. Le parole di questo musicista/poeta, come i gesti dell’equilibrista, devono pure sembrare assurdi a chi non sa che il poeta, come l’equilibrista, cammina sempre sul vuoto o sulla morte. Anche il mare, secondo un’immagine montaliana delle Occasioni, è un orizzonte in fuga. Lo scoglio è il luogo che fisicamente, geograficamente, si evoca a chi ascolta, come l’unico posto scomodo e necessario da cui si possono dire in musica quelle cose, verso il mare, quella massa liquida, enigmatica e benevola. Che raccoglie e disperde tutto. Gli si può confidare anche una speranza. Muto e perciò anche promettente in un’attesa che durerà quanto la vita, quanto le età della vita, che sono un motivo costante di queste canzoni. Le età, le epoche dell’anima. Quanto è ingannevole il tempo, in cui ci si consuma senza crescere… O se qualcosa cresce e matura, è solo il bambino che è dentro di noi. Diventa un gigante, matura, si perfeziona, ma come bambino, non come uomo. E’ lui alla fine che parla per noi. Alla natura, al mare, agli uccelli nel cielo e sul mare. Si sentono gracidare i gabbiani, come se altercassero con la tempesta. Sono le scene che si producono da un’ispirazione autobiografica, ma che diventano autonome come , come quadri di vita altra e diversa.

Queste canzoni sono legate le une alle altre da un’intima coerenza di ispirazione. Una fragile e dolcissima, mai però sconnessa tela di parole, trapunta di proteste, di amore, di utopie ecologiche, di lirica della sconfitta esistenziale, sulla pena sottile di esistere, la precarietà, la ruvida dolcezza, lo scarno sentimentalismo, in un dialogo intimo e sereno con un’immagine femminile che sa ascoltare, a volte fa da esorcista delle angosce e del male (…donna che scaccia il male che c’è in me). Un mondo pieno della presenza della donna. Pervaso da una femminilità soccorrevole, materna, pudica, rituale. Tenerezza che confligge con l’eros, che trafigge il cuore e divora la carne.

L’autore di queste canzoni solo della donna si fida, in questo mondo, su cui stende timidi bilanci e dal quale sembra ogni volta cantare il congedo. Anche quando sta male, si rivolge all’amore che aiuti. Che protegga dal dolore ed assicuri al tempo un domani. Che indichi una rotta meno insicura (…il mare che respira è come il cuore di una donna). Segno che questo amore c’è, che in questo amore si crede. C’è un angelo femmina, della buona vita, magari della buona morte. C’è molta tenerezza, calor di famiglia, in queste canzoni d’amore. La famigliarità delle emozioni condivise, dei gesti conosciuti come codice di salvezza (…ogni cosa che tu faccia è un messaggio sottotraccia).

Un letto di casa dove svegliarsi senza l’orrore dei sogni bradi; in cui fare all’amore come animali solo più umani. Senza spiegarlo l’amore, che sarebbe un delirio di banalità!

Sono canzoni molto parlate. Piene di fiducia, proprio perché si affidano al linguaggio, alla parola dello scambio, del dono: la spia delle parole è sempre modalità di conoscenza del mondo. Marco Cresti lo conosce attraverso l’amore.

…e sono anche anche canzoni di memoria,in questo senso e in questo preciso solco, sono canzoni politiche, avverse per definizione a chi ne è senza, affaccendato nel presente, con una allure che mi è ben nota, che ritrovo ad esempio in un raffinato quanto ripetitivo esegeta della gentilezza perduta quale Michele Serra, o nel furore sempre un po’ affatturato da nevrosi e da accidia del Nanni cinematografico.

In questa tensione di ritegno e di conservazione, in questa morbida ed autoprotetta sfera di privato, un privato in cui ha finito per deporsi lo scisma del politico, si consuma anche il destino di queste canzoni, che è lo stesso destino retrospettivo dei suoi destinatari di elezione. Una generazione appunto che ha molto in comune, certi libri (ed echi di libri e di poeti), ma soprattutto quello che poteva essere e non è stato.

Donde una pena sottile,un’amarezza spalmata anche sulla gioia. La politica che fu una passione forte ed inclusiva è diventata una volatile essenza domestica. Che può ancora includere un certo pathos panteistico, che parla di spazi grandi, distese equoree, utopie di libertà nel correlato oggettivo del volo dei gabbiani. Si guarda molto al passato e a un presente affaticato e appena redento. E’ l’elegia di queste canzoni.

Marino Biondi (docente di lettere Università di Firenze)